mercoledì 6 febbraio 2008

Giorno della Memoria, il silenzio del Comune di Melegnano

Da alcuni anni ­per la precisione dal 2001 ­il 27 gennaio è diventata una data pubblica. Questa data ricorda la liberazione del campo di Auschwitz ed è stata assunta come il simbolo dello sterminio.

Questo è il primo anno dal 2001 che l’Amministrazione Comunale di Melegnano tace su questa data.

Nel luglio 2000 una legge dello Stato italiano ha definito la questione della memoria dello sterminio antiebraico nel corso della Seconda guerra mondiale come tema di riflessione collettiva. Da allora molte volte in questi anni la parola Shoah (letteralmente annientamento) ha iniziato a circolare e a far parte del vocabolario pubblico. A differenza di allora forse oggi è più radicata la percezione di quell’evento.

Da molte parti si è detto e spesso si è tornati a ripetere che occorreva fissare lamemoria della Shoah proprio per prevenire l’eventualità dell’oblio. Questo richiamo sembra pertinente ogni qualvolta il nome Auschwitz (o alternativamente: forni) viene usato ”con leggerezza” (per esempio tra tifoserie avversarie allo stadio).

Il Giorno della memoria ­il 27 gennaio ­non è il giorno dei morti. Per questa ricorrenza abbiamo già una data (il 2 novembre) nel nostro calendario civico e pubblico. Non c’è alcun bisogno di duplicarla. Il 27 gennaio è invece il giorno dei vivi. Della memoria per i vivi e non della commemorazione dei morti.

Più precisamente. La Shoah è un evento che ha voluto dire distruzione fisica di milioni di individui ­ soprattutto ebrei, ma anche portatori di handicap, rom o sinti, omosessuali, russi, polacchi, slavi, oppositori politici o per motivazioni religiose, cattolici, protestanti, Testimoni di Geova ­ sulla base di una macchina persecutoria che colpiva gli inquilini della porta accanto. Per questo la memoria del loro sterminio riguarda tutti noi. Non è un evento privato o corporativo.

Il 27 gennaio, il giorno della memoria riguarda un pezzo della storia culturale dell’Europa con cui l’Europa ha iniziato a confrontarsi, in ritardo e spesso con disagio. Su questo sarebbe bene tenere dritta la barra. Perché un evento acquisti il carattere pubblico per una comunità occorre che si costruisca la consapevolezza di un lutto e dunque di un vuoto, ovvero di una cosa che segni collettivamente uno scarto tra “prima” e “dopo”. La memoria pubblica non è altro che la consapevolezza di quel vuoto.

Un aspetto che è drammaticamente divenuto attuale nel silenzio di tutti noi di fronte ai fatti di Rwanda tra il 1994 e il 1995, ma anche della guerra nell’ex Jugoslavia tra il 1991 e il 1995, o del genocidio del popolo Armeno compiuto dai Turchi tra il 1915 e il 1916, o piuttosto delle stragi dei Khmer rossi in Cambogia dal 1975 al 1979, o ancora dei rischi di una nuovo genocidio tribale in Kenya.

La memoria non è un fatto. È un atto. Proprio perché la memoria è un atto che si compie tra vivi ed è volto a legare tra loro individui in relazione alla costruzione di una coscienza pubblica, essa ha un valore pragmatico, ovvero serve per fare qualcosa.

È un atto che dice oggi che del passato si è trattenuto qualcosa, e che quel qualcosa ha arricchito la nostra capacità di agire. E questo proprio perché in quel contesto si sono date molte possibilità e molti hanno fatto parte di una macchina distruttiva, anche nella sfera delle vittime. Ma questo se da una parte non significa che si confondano e si assimilino i ruoli, dall’altra obbliga a riflettere su ciò che tratteniamo di quell’esperienza.

Ovvero del valore civico di quella riflessione pubblica. «È ingenuo, assurdo e storicamente falso ­ ha scritto Primo Levi ­ ritenere che un sistema demoniaco, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada e le sporca, le assimila a sé, e ciò tanto più quanto più esse sono disponibili, bianche, prive di un’ossatura politica e morale. (...). Esiste
un contagio del male: chi è nonuomo disumanizza gli altri, ogni delitto si irradia, si trapianta intorno a sé, corrompe le coscienze e si circonda di complici sottratti con la paura o la seduzione al campo avverso. È tipico di ogni regime criminoso, qual era il nazismo, di svigorire e confondere le nostre capacità di giudizio. È colpevole chi denunzia sotto tortura? O chi uccide per non essere ucciso?».

E tuttavia anche così Levi riflette non su un dato astorico, bensì su uno storico. Infatti prosegue: «La coscienza generalizzata che davanti alla violenza non si cede, ma si resiste, è di oggi, è del dopo, non è di allora. L’imperativo della resistenza è maturato con la resistenza, con la tragedia planetaria della Seconda Guerra Mondiale; prima era prezioso patrimonio di pochi. Neanche oggi è di tutti, ma oggi chi vuole intendere può intendere... ».

E la città di Melegnano? Non vuole più intendere!

Gruppo Consiliare Partito Democratico
e Partito Democratico di Melegnano

27 gennaio 2008

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