C'è una profonda contraddizione nella decisione con cui la nuova amministrazione comunale di Melegnano, guidata dal sindaco Vito Bellomo, ha scelto di non commemorare la giornata della Memoria delle vittime della Shoah, ma di dedicare le proprie cure alla Giornata del ricordo dell'esodo degli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia e delle vittime delle foibe.
Martedì prossimo, 5 febbraio, alle 21 nella sala delle Battaglie del Castello Mediceo, moderati da Fabio Raimondo, assessore ai Servizi sociali e alle politiche della famiglia, ne parleranno Vito Bellomo, Denis Zanaboni, assessore alla Cultura e identità, Piero Tarticchio, presidente del Centro di cultura Giuliano Dalmata, esule e figlio di un infoibato, oltre che parente di altre sei vittime delle foibe, insieme a Roberto Predolin, dirigente nazionale dell'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia (oltre che assessore al Commercio del Comune di Milano).
L'iniziativa è lodevole: ricordare le migliaia e migliaia di vittime (italiane ma non solo, poiché vennero trucidati anche sloveni e croati la cui colpa era solo quella di essere anticomunisti) degli eccidi compiuti dai partigiani titini è un dovere, Commemorare l'etnocidio e la pulizia etnica nei confronti degli italiani di Istria, Dalmazia e Fiume e l'esodo di circa 250mila nostri connazionali è un dovere, come ha testimoniato di recente anche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Quello che appare meno nobile, ma forse semplicemente solo di parte e quindi stolto, è il tentativo dell'Amministrazione di Melegnano di commemorare quelle tragedie senza denunciare altre tragedie che a quelle sono strutturalmente connesse.
Parliamo delle politiche razziste che il regime fascista condusse per anni e anni contro le popolazioni slovene e croate dell'Istria e della Dalmazia. Parliamo del tentativo di Mussolini e dei suoi gerarchi di cancellare la lingua, la cultura, gli stessi cognomi delle famiglie slovene e croate, di modificare la toponomastica, di inculcare la "superiorità" della "razza" italiana nei confronti dei popoli slavi.
Non solo. Parliamo dei crimini di guerra compiuti dai militari italiani e dai fascisti nell'allora Jugoslavia. Parliamo, ad esempio, della repressione attuata durante il conflitto non solo contro i partigiani del Fronte di Liberazione, ma contro tutta la popolazione jugoslava assoggettata ai vincitori, italiani e tedeschi, fascisti e nazisti.
Parliamo dei proclami del generale fascista Orlando che ordinava «è necessario eliminare: tutti i maestri elementari, tutti gli impiegati comunali e pubblici in genere (A.C., Questura, Tribunale, Finanza ecc.), tutti i medici, i farmacisti, gli avvocati, i giornalisti, ... i parroci, ... gli operai, ... gli ex-militari italiani, che si sono trasferiti dalla Venezia Giulia», chiedendone la deportazione a migliaia nei campi di concentramento.
Parliamo del generale fascista Roatta, che in un vertice tenuto a Fiume il 23 maggio 1942, annunciava l'appoggio di Mussolini alla linea dura: «Anche il Duce ha detto di ricordarsi che la miglior situazione si fa quando il nemico è morto. Occorre quindi poter disporre di numerosi ostaggi e di applicare la fucilazione tutte le volte che ciò sia necessario... Il Duce concorda nel concetto di internare molta gente - anche 20-30.000 persone».
Parliamo dei processi sommari, delle fucilazioni, dei campi di concentramento per i civili. Ricordiamo, solo per citare un caso, il famigerato campo di prigionia di Arbe dove le condizioni inumane condussero centinaia di persone alla morte per fame e stenti, secondo la denuncia degli stessi Carabineri Reali nei loro rapporti ai Comandi italiani: solo fino al 19 novembre 1942, ad Arbe morirono di fame e stenti 289 persone, di cui 62 bambini.
Quelle vicende, quelle stragi, quegli orrori - sia chiaro - non giustificano la terribile risposta titina, condotta non solo contro i criminali di guerra fascisti, ma anche contro civili italiani, contro altri antifascisti di diverso colore politico. La politica prebellica e militare di Mussolini non può essere usata come motivazione per stendere il manto dell'oblìo sulla pulizia etnica applicata da Tito nei confronti degli italiani che abitavano in quei territori.
Ma se non si denuncia integralmente la follia razzista e imperialista del fascismo e del nazismo, se non si ricordano tutte, proprio tutte le vittime degli orrori della Seconda Guerra Mondiale, qual è il fondamento della pietà umana che può e deve essere espressa nei confronti delle migliaia e migliaia di italiani vittime dello stalinismo nella sua variante titina? Quale memoria, davvero storica e non semplicemente di parte, può essere efficacemente costruita se i carnefici jugoslavi - perché tali furono gli autori dei massacri delle foibe e della "pulizia tecnica" nelle ex province adriatiche d'Italia – sembrano emergere come per incanto, senza alcun retroterra, dalle vicende seguite all’armistizio del 1943 e alla fine del secondo conflitto mondiale?
Questo sforzo di raccontare tutta la storia, anche quella che non fa onore agli italiani, è del tutto assente dalla commemorazione organizzata dalla Giunta di Vito Bellomo. Forse poteva essere altrimenti, ma a quanto pare forze come Alleanza Nazionale e Lega Nord hanno voluto così. D'altronde se si intitola un assessorato all'"identità", come si può poi farsi carico di cercare di comprendere la "molteplicità" e la "diversità", non solo di un angolo d'Europa dove, prima del fascismo, convivevano popoli, culture e lingue diverse, italiani, sloveni, croati, ma anche quella dell’Italia, della Melegnano di oggi?
Un ultimo, anedottico dettaglio. Lo stesso Sindaco Vito Bellomo e la stessa Giunta, che hanno organizzato il convegno di martedì prossimo, alcuni mesi or sono hanno deciso di intitolare una via di Melegnano alla memoria di don Cesare Amelli. Fra le tante a disposizione, hanno scelto di cancellare proprio via Zara, l'unica che, insieme a via Fiume, ricordasse le vicende degli esodi dalmati. Le contraddizioni, si sa, spesso si possono leggere anche nei dettagli.
Gruppo Consiliare Partito Democratico
e Partito Democratico di Melegnano
31 gennaio 2008
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mercoledì 6 febbraio 2008
Giorno della Memoria, il silenzio del Comune di Melegnano
Da alcuni anni per la precisione dal 2001 il 27 gennaio è diventata una data pubblica. Questa data ricorda la liberazione del campo di Auschwitz ed è stata assunta come il simbolo dello sterminio.
Questo è il primo anno dal 2001 che l’Amministrazione Comunale di Melegnano tace su questa data.
Nel luglio 2000 una legge dello Stato italiano ha definito la questione della memoria dello sterminio antiebraico nel corso della Seconda guerra mondiale come tema di riflessione collettiva. Da allora molte volte in questi anni la parola Shoah (letteralmente annientamento) ha iniziato a circolare e a far parte del vocabolario pubblico. A differenza di allora forse oggi è più radicata la percezione di quell’evento.
Da molte parti si è detto e spesso si è tornati a ripetere che occorreva fissare lamemoria della Shoah proprio per prevenire l’eventualità dell’oblio. Questo richiamo sembra pertinente ogni qualvolta il nome Auschwitz (o alternativamente: forni) viene usato ”con leggerezza” (per esempio tra tifoserie avversarie allo stadio).
Il Giorno della memoria il 27 gennaio non è il giorno dei morti. Per questa ricorrenza abbiamo già una data (il 2 novembre) nel nostro calendario civico e pubblico. Non c’è alcun bisogno di duplicarla. Il 27 gennaio è invece il giorno dei vivi. Della memoria per i vivi e non della commemorazione dei morti.
Più precisamente. La Shoah è un evento che ha voluto dire distruzione fisica di milioni di individui soprattutto ebrei, ma anche portatori di handicap, rom o sinti, omosessuali, russi, polacchi, slavi, oppositori politici o per motivazioni religiose, cattolici, protestanti, Testimoni di Geova sulla base di una macchina persecutoria che colpiva gli inquilini della porta accanto. Per questo la memoria del loro sterminio riguarda tutti noi. Non è un evento privato o corporativo.
Il 27 gennaio, il giorno della memoria riguarda un pezzo della storia culturale dell’Europa con cui l’Europa ha iniziato a confrontarsi, in ritardo e spesso con disagio. Su questo sarebbe bene tenere dritta la barra. Perché un evento acquisti il carattere pubblico per una comunità occorre che si costruisca la consapevolezza di un lutto e dunque di un vuoto, ovvero di una cosa che segni collettivamente uno scarto tra “prima” e “dopo”. La memoria pubblica non è altro che la consapevolezza di quel vuoto.
Un aspetto che è drammaticamente divenuto attuale nel silenzio di tutti noi di fronte ai fatti di Rwanda tra il 1994 e il 1995, ma anche della guerra nell’ex Jugoslavia tra il 1991 e il 1995, o del genocidio del popolo Armeno compiuto dai Turchi tra il 1915 e il 1916, o piuttosto delle stragi dei Khmer rossi in Cambogia dal 1975 al 1979, o ancora dei rischi di una nuovo genocidio tribale in Kenya.
La memoria non è un fatto. È un atto. Proprio perché la memoria è un atto che si compie tra vivi ed è volto a legare tra loro individui in relazione alla costruzione di una coscienza pubblica, essa ha un valore pragmatico, ovvero serve per fare qualcosa.
È un atto che dice oggi che del passato si è trattenuto qualcosa, e che quel qualcosa ha arricchito la nostra capacità di agire. E questo proprio perché in quel contesto si sono date molte possibilità e molti hanno fatto parte di una macchina distruttiva, anche nella sfera delle vittime. Ma questo se da una parte non significa che si confondano e si assimilino i ruoli, dall’altra obbliga a riflettere su ciò che tratteniamo di quell’esperienza.
Ovvero del valore civico di quella riflessione pubblica. «È ingenuo, assurdo e storicamente falso ha scritto Primo Levi ritenere che un sistema demoniaco, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada e le sporca, le assimila a sé, e ciò tanto più quanto più esse sono disponibili, bianche, prive di un’ossatura politica e morale. (...). Esiste
un contagio del male: chi è nonuomo disumanizza gli altri, ogni delitto si irradia, si trapianta intorno a sé, corrompe le coscienze e si circonda di complici sottratti con la paura o la seduzione al campo avverso. È tipico di ogni regime criminoso, qual era il nazismo, di svigorire e confondere le nostre capacità di giudizio. È colpevole chi denunzia sotto tortura? O chi uccide per non essere ucciso?».
E tuttavia anche così Levi riflette non su un dato astorico, bensì su uno storico. Infatti prosegue: «La coscienza generalizzata che davanti alla violenza non si cede, ma si resiste, è di oggi, è del dopo, non è di allora. L’imperativo della resistenza è maturato con la resistenza, con la tragedia planetaria della Seconda Guerra Mondiale; prima era prezioso patrimonio di pochi. Neanche oggi è di tutti, ma oggi chi vuole intendere può intendere... ».
E la città di Melegnano? Non vuole più intendere!
Gruppo Consiliare Partito Democratico
e Partito Democratico di Melegnano
27 gennaio 2008
Questo è il primo anno dal 2001 che l’Amministrazione Comunale di Melegnano tace su questa data.
Nel luglio 2000 una legge dello Stato italiano ha definito la questione della memoria dello sterminio antiebraico nel corso della Seconda guerra mondiale come tema di riflessione collettiva. Da allora molte volte in questi anni la parola Shoah (letteralmente annientamento) ha iniziato a circolare e a far parte del vocabolario pubblico. A differenza di allora forse oggi è più radicata la percezione di quell’evento.
Da molte parti si è detto e spesso si è tornati a ripetere che occorreva fissare lamemoria della Shoah proprio per prevenire l’eventualità dell’oblio. Questo richiamo sembra pertinente ogni qualvolta il nome Auschwitz (o alternativamente: forni) viene usato ”con leggerezza” (per esempio tra tifoserie avversarie allo stadio).
Il Giorno della memoria il 27 gennaio non è il giorno dei morti. Per questa ricorrenza abbiamo già una data (il 2 novembre) nel nostro calendario civico e pubblico. Non c’è alcun bisogno di duplicarla. Il 27 gennaio è invece il giorno dei vivi. Della memoria per i vivi e non della commemorazione dei morti.
Più precisamente. La Shoah è un evento che ha voluto dire distruzione fisica di milioni di individui soprattutto ebrei, ma anche portatori di handicap, rom o sinti, omosessuali, russi, polacchi, slavi, oppositori politici o per motivazioni religiose, cattolici, protestanti, Testimoni di Geova sulla base di una macchina persecutoria che colpiva gli inquilini della porta accanto. Per questo la memoria del loro sterminio riguarda tutti noi. Non è un evento privato o corporativo.
Il 27 gennaio, il giorno della memoria riguarda un pezzo della storia culturale dell’Europa con cui l’Europa ha iniziato a confrontarsi, in ritardo e spesso con disagio. Su questo sarebbe bene tenere dritta la barra. Perché un evento acquisti il carattere pubblico per una comunità occorre che si costruisca la consapevolezza di un lutto e dunque di un vuoto, ovvero di una cosa che segni collettivamente uno scarto tra “prima” e “dopo”. La memoria pubblica non è altro che la consapevolezza di quel vuoto.
Un aspetto che è drammaticamente divenuto attuale nel silenzio di tutti noi di fronte ai fatti di Rwanda tra il 1994 e il 1995, ma anche della guerra nell’ex Jugoslavia tra il 1991 e il 1995, o del genocidio del popolo Armeno compiuto dai Turchi tra il 1915 e il 1916, o piuttosto delle stragi dei Khmer rossi in Cambogia dal 1975 al 1979, o ancora dei rischi di una nuovo genocidio tribale in Kenya.
La memoria non è un fatto. È un atto. Proprio perché la memoria è un atto che si compie tra vivi ed è volto a legare tra loro individui in relazione alla costruzione di una coscienza pubblica, essa ha un valore pragmatico, ovvero serve per fare qualcosa.
È un atto che dice oggi che del passato si è trattenuto qualcosa, e che quel qualcosa ha arricchito la nostra capacità di agire. E questo proprio perché in quel contesto si sono date molte possibilità e molti hanno fatto parte di una macchina distruttiva, anche nella sfera delle vittime. Ma questo se da una parte non significa che si confondano e si assimilino i ruoli, dall’altra obbliga a riflettere su ciò che tratteniamo di quell’esperienza.
Ovvero del valore civico di quella riflessione pubblica. «È ingenuo, assurdo e storicamente falso ha scritto Primo Levi ritenere che un sistema demoniaco, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada e le sporca, le assimila a sé, e ciò tanto più quanto più esse sono disponibili, bianche, prive di un’ossatura politica e morale. (...). Esiste
un contagio del male: chi è nonuomo disumanizza gli altri, ogni delitto si irradia, si trapianta intorno a sé, corrompe le coscienze e si circonda di complici sottratti con la paura o la seduzione al campo avverso. È tipico di ogni regime criminoso, qual era il nazismo, di svigorire e confondere le nostre capacità di giudizio. È colpevole chi denunzia sotto tortura? O chi uccide per non essere ucciso?».
E tuttavia anche così Levi riflette non su un dato astorico, bensì su uno storico. Infatti prosegue: «La coscienza generalizzata che davanti alla violenza non si cede, ma si resiste, è di oggi, è del dopo, non è di allora. L’imperativo della resistenza è maturato con la resistenza, con la tragedia planetaria della Seconda Guerra Mondiale; prima era prezioso patrimonio di pochi. Neanche oggi è di tutti, ma oggi chi vuole intendere può intendere... ».
E la città di Melegnano? Non vuole più intendere!
Gruppo Consiliare Partito Democratico
e Partito Democratico di Melegnano
27 gennaio 2008
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